Il Pescatore e la sua Anima — Racconto di Oscar Wilde

Tutte le sere il giovane Pescatore usciva in mare e gettava le sue reti nell’acqua.

Quando il vento soffiava da terra prendeva poco o niente, perché era un vento amaro e dalle ali scure, e salivano onde aspre ad incontrarlo. Ma quando il vento soffiava verso la costa, i pesci risalivano dalle profondità e nuotavano tra i labirinti delle sue reti; e lui poi li portava al mercato e li vendeva.

Ogni sera usciva in mare, e una sera la rete era così pesante che riusciva a stento a tirarla in barca. E rideva, pensando tra sé: «Avrò senz’altro preso tutti i pesci che nuotano, o avrò catturato qualche strano mostro che farà restare tutti a bocca aperta, o qualcosa di spaventoso che la Regina stessa vorrà vedere»; e raccogliendo tutte le sue forze  tirò le ruvide funi finché, come linee di smalto azzurro intorno a un vaso di bronzo, non gli si ingrossarono le lunghe vene delle braccia. Tirò le corde sottili e il cerchio di piatti sugheri si avvicinò sempre più, e finalmente la rete affiorò a pelo d’acqua.

Ma dentro non c’era nemmeno un pesce, né mostri, o cose spaventose; c’era solo una piccola Sirena che giaceva addormentata.

Il pescatore e la sirena

I suoi capelli erano come umido vello dorato, e ogni singolo capello era come un filo di oro fino in una coppa di vetro. Il suo corpo era bianco come l’avorio, e la sua coda era d’argento e perla. D’argento e perla era la sua coda, avvolta dalle verdi alghe del mare; e come conchiglie erano le sue orecchie, e le sue labbra erano come corallo. Le fredde onde lambivano i suoi freddi seni e il sale brillava sulle sue ciglia.

Era così bella che quando il giovane Pescatore la vide si riempì di meraviglia;  tese la mano, tirò a sé la rete e chinatosi su un fianco la serrò tra le sue braccia. Quando lui la toccò, lei emise un grido come un gabbiano spaventato e si svegliò; e lo guardò terrorizzata con i suoi occhi color malva e ametista, e cercò in ogni modo di divincolarsi da lui. Ma lui la teneva stretta a sé e non voleva lasciarla andar via.

Quando lei capì che non poteva in alcun modo sfuggirgli, si mise a piangere e disse: «Ti prego, lasciami andare, perché io sono l’unica figlia di un re e mio padre è anziano e solo».

Ma il giovane Pescatore rispose: «Ti lascerò andare solo se mi prometti che ogni volta che ti chiamerò tu verrai e canterai per me, perché ai pesci piace ascoltare il canto della Gente del Mare, e così le mie reti si riempiranno.

«Davvero mi lascerai andare, se te lo prometto?».

«Sì, ti lascerò andare davvero», disse il giovane Pescatore.

Così lei promise ciò che lui desiderava e giurò col giuramento delle Genti del Mare. E lui allentò le braccia con cui la teneva stretta, e lei si tuffò nell’acqua, tremando di uno strano timore.

Ogni notte il giovane Pescatore usciva in mare e chiamava la Sirena e lei usciva dall’acqua e cantava per lui. I delfini le nuotavano sempre intorno e i gabbiani selvaggi le volavano intorno alla testa.

E cantava una canzone meravigliosa. Perché cantava delle Genti del Mare che conducevano le loro greggi di grotta in grotta e portavano gli agnellini sulle loro spalle; dei Tritoni che hanno lunghe barbe verdi e petti villosi, e soffiano attraverso conchiglie ritorte quando passa il re; del palazzo del re tutto fatto d’ambra, con il tetto di limpido smeraldo e il pavimento di perla lucente; e dei giardini del mare dove i grandi ventagli di filigrana di corallo ondeggiano tutto il giorno, e i pesci guizzano come uccelli d’argento, e gli anemoni aderiscono agli scogli, e i garofani sbocciano nell’ondulata sabbia gialla. Cantava delle grandi balene che arrivano dai mari del Nord e hanno aguzze stalattiti di ghiaccio appese alle pinne; delle Sirene che raccontano cose tanto meravigliose che i mercanti devono tapparsi le orecchie con la cera per non ascoltarle e non cadere in acqua e annegare; delle galere affondate con i loro alti alberi maestri, e i marinai ghiacciati aggrappati al sartiame, e lo sgombro che nuota dentro e fuori dai boccaporti aperti; dei piccoli cirripedi che sono grandi viaggiatori e si attaccano alle chiglie delle navi e girano il mondo continuamente; e delle seppie che vivono sulle pareti delle scogliere e distendono le loro lunghe braccia nere e possono far scendere la notte quando vogliono. Cantava del nautilo che ha una sua barca intagliata in un opale, spinta da una vela di seta; dei felici Tritoni che suonano arpe e sanno far cadere addormentato il grande Kraken; dei bimbetti che afferrano le scivolose focene e le cavalcano ridendo; delle Sirene che giacciono nella bianca spuma e tendono le braccia ai marinai; e dei leoni marini con le loro zanne ricurve, e dei cavalli marini dalle fluttuanti criniere.

E mentre cantava, tutti i tonni salivano dal fondo del mare per ascoltarla, e il giovane Pescatore gettava le sue reti intorno a loro e li catturava, e altri ne prendeva con un arpione. E quando la sua barca era carica, la Sirena si immergeva nel mare, sorridendogli.

Ma non si avvicinava mai al punto che lui potesse toccarla. Spesso lui la chiamava e la pregava, ma lei non voleva; e quando lui cercò di afferrarla lei si tuffò nell’acqua come potrebbe tuffarsi una foca, né la rivide più quel giorno. E ogni giorno il suono della sua voce diventava più dolce alle sue orecchie. La sua voce era così dolce che lui dimenticò le sue reti e la sua abilità, e non si curava più del suo mestiere. Con pinne vermiglie e sporgenti occhi dorati, i tonni arrivavano in branchi, ma lui non li guardava nemmeno. La sua fiocina giaceva inutilizzata al suo fianco, e i suoi canestri di giunchi ritorti erano vuoti. Con le labbra dischiuse e gli occhi appannati dalla meraviglia, sedeva inerte nella sua barca e ascoltava, ascoltava finché non finiva avvolto nella nebbia marina e la luna vagante gli macchiava d’argento le membra brune.

E una sera la chiamò e le disse: «Piccola Sirena, piccola Sirena, io ti amo. Prendimi come tuo sposo, perché io ti amo».

Ma la Sirena scosse il capo. «Tu hai un’anima umana», rispose. «Se solo tu potessi allontanare la tua anima, allora ti potrei amare».

E il giovane Pescatore disse a se stesso: «A cosa mi serve la mia anima? Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco. Certo che la allontanerò, e grande sarà la mia felicità». E un grido di gioia proruppe dalle sue labbra, e stando in piedi sulla barca dipinta tese le braccia alla Sirena. «Allontanerò la mia anima», gridò, «e tu sarai la mia sposa, e io il tuo sposo, e dimoreremo insieme nel profondo del mare, e tutto ciò che hai cantata me lo mostrerai, e tutto ciò che desideri io lo farò, né le nostre vite saranno mai divise».

E la piccola Sirena rise di felicità e nascose il viso tra le sue mani.

«Ma come faccio a separarmi dalla mia anima?» gridò il giovane Pescatore. «Dimmi come posso fare, ed ecco, sarà fatto!»

«Ahimè! Non lo so», disse la piccola Sirena; «la Gente del Mare non ha anima». E si immerse nel profondo, guardandolo con grande pena.

****

L’indomani, di buon mattino, prima che il sole fosse un palmo sopra la collina, il giovane Pescatore si incamminò verso la casa del Parroco e bussò tre volte alla porta.

Il novizio guardò dal cancelletto e quando capì chi era tirò il catenaccio e gli disse «Entra».

E il giovane Pescatore entrò, e si inginocchiò sui giunchi dal dolce profumo del pavimento, e chiamò il parroco che stava leggendo la Bibbia e gli disse:
«Padre, sono innamorato di una delle Genti del Mare, e la mia anima mi impedisce di avere colei che desidero. Dimmi come posso allontanare la mia anima, perché in verità non mi è necessaria. Che valore ha la mia anima per me? Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco».

E il Parroco si batté il petto e rispose: «Ahimè, ahimè, tu sei pazzo o hai mangiato qualche erba velenosa, perché l’anima è la parte più nobile dell’uomo e ci è stata data da Dio perché ne possiamo fare un uso nobile. Non c’è nulla di più prezioso dell’anima umana né niente di terreno che possa esserle paragonata. Vale tutto l’oro del mondo ed è più preziosa dei rubini del re. Perciò, figliolo, non pensare più a questa cosa, perché è un peccato che non si può perdonare. E per quanto riguarda la Gente del Mare, sono perduti, come è perduto chiunque abbia a che fare con loro. Sono come le bestie del campo che non distinguono il bene dal male, e per loro il Signore non è morto».

Gli occhi del giovane Pescatore si riempirono di lacrime quando sentì le amare parole del Parroco; si alzò da terra e gli disse: «Padre, i Fauni vivono nella foresta e sono felici, e sugli scogli siedono i Tritoni con le loro arpe d’oro rosso. Lasciami essere come loro, ti supplico, perché i loro giorni sono come i giorni dei fiori. E quanto alla mia anima, a che mi serve la mia anima, se si frappone tra me e colei che amo?»

«L’amore del corpo è vile», gridò il Parroco, corrugando le sopracciglia, «e vili e malvagie sono le creature pagane a cui Dio permette di vagare nel suo Mondo. Siano maledetti i Fauni del bosco, e maledetti siano quei cantanti del mare! Li ho sentiti cantare di notte, e hanno cercato di distrarmi dal mio rosario. Bussano alla finestra e ridono. Mi sussurrano all’orecchio i racconti delle loro gioie pericolose. Mi tentano con tentazioni, e quando voglio pregare mi fanno le boccacce. Sono perduti, ti dico, sono perduti. Per loro non c’è né Paradiso né Inferno, e in nessuno posto loderanno il nome di Dio».

«Padre», gridò il giovane Pescatore, «tu non sai quel che dici. Una volta nella mia rete ho catturato la figlia di un re. È più bella della stella del mattino, e più bianca della luna. Per il suo corpo darei la mia anima e per il suo amore rinuncerei al Paradiso. Rispondi a ciò che ti ho chiesto e lasciami andare in pace».

«Vattene! Vattene!» gridò il Parroco, «la tua innamorata è perduta, e tu ti perderai con lei».

E non gli diede la benedizione, ma lo cacciò fuori dalla porta.

E il giovane Pescatore si recò nella piazza del mercato, e camminava lentamente e con la testa china, come chi è in gran pena.

E quando i mercanti lo videro arrivare iniziarono a bisbigliare tra loro, e uno di loro gli andò incontro e lo chiamò per nome, e gli disse: «Cos’hai da vendere?»

«Voglio vendere la mia anima», rispose. «Ti prego, compramela, perché sono stanco di averla. A cosa mi serve la mia anima? Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco».

Ma i mercanti lo derisero e dissero «Che ce ne facciamo noi dell’anima di un uomo? Non vale un soldo bucato. Vendici il tuo corpo come schiavo e ti vestiremo di porpora marina, ti metteremo un anello al dito e faremo di te il giocattolo favorito della grande Regina. Ma non parlarci di anima; per noi non è niente, né ha alcun valore per il nostro servizio».

E il giovane Pescatore si disse: «Che strana cosa è questa! Il Parroco mi ha detto che l’anima vale tutto l’oro del mondo, e i mercanti dicono che non vale un soldo bucato». E andò via dalla piazza del mercato, e scese alla spiaggia, meditando sul da farsi.

****

E a mezzogiorno si ricordò che uno dei suo compagni che faceva il raccoglitore di finocchio marino gli aveva detto di una certa giovane Strega che viveva in una grotta in capo alla baia e che era molto abile nella stregoneria. E lui si mise subito a correre, tanto era ansioso di liberarsi della sua anima, e una nuvola di polvere lo seguiva mentre correva nella sabbia facendo il giro della spiaggia. Dal prurito che sentì sul palmo della mano, la giovane Strega capì che stava arrivando, e rise e sciolse i suoi capelli rossi. Con i capelli rossi sciolti sulle spalle, stava in piedi all’ingresso della grotta, e in mano teneva un ramoscello di cicuta selvatica in fiore.

«Cosa ti manca? Cosa ti manca?» esclamò, quando lui salì ansimando su per il pendio e si chinò ai suoi piedi. «Pesce per la tua rete, quando il vento è cattivo? Ho una piccola cornamusa di canna, e quando vi soffio le triglie salgono alla baia. Ma ha un prezzo, bel ragazzo, ha un prezzo. Cosa ti manca? Cosa ti manca? Una tempesta che affondi le navi e che riversi sulla riva i forzieri pieni di tesori? Io ho più tempeste del vento, perché io servo uno che è più forte del vento, e con un setaccio e un secchio d’acqua posso mandare le grandi galere sul fondo del mare. Ma ho un prezzo, bel ragazzo, ho un prezzo. Cosa ti manca? Cosa ti manca? Conosco un fiore che cresce nella valle, nessuno lo conosce tranne me. Ha foglie color porpora, e una stella nel cuore, e il suo succo è bianco come il latte. Se tu toccassi con questo fiore le dure labbra della Regina, lei ti seguirebbe in capo al mondo. Si leverebbe dal letto del re, e in capo al mondo ti seguirebbe. E ha un prezzo, bel ragazzo, ha un prezzo. Cosa ti manca? Cosa ti manca? Posso pestare un rospo in un mortaio e farne un brodo, e mescolare il brodo con la mano di un morto. Se lo spruzzi sul tuo nemico addormentato, diventerà una nera vipera, e la sua stessa madre lo ammazzerà. Con una ruota posso tirar via la luna dal cielo, e in un cristallo posso mostrarti la Morte. Cosa ti manca? Cosa ti manca? Dimmi il tuo desiderio e io te lo darò, e tu mi pagherai un prezzo, bel ragazzo, tu mi pagherai un prezzo».

«Il mio desiderio è piccola cosa», disse il giovane Pescatore, «eppure il Parroco si è arrabbiato con me e mi ha cacciato via. Non è che piccola cosa, e i mercanti mi hanno deriso e me l’hanno negata. Perciò sono venuto da te, nonostante gli uomini dicano tu sia malvagia, e qualunque sia il prezzo io lo pagherò».

«Che cosa vuoi?» chiese la Strega, avvicinandosi a lui.

«Vorrei allontanare da me la mia anima», disse il giovane Pescatore.

La Strega impallidì e tremò, e nascose il viso nel suo manto blu. «Bel ragazzo, bel ragazzo», mormorò, «questa è una cosa terribile da fare.»

Lui scosse i suoi ricci castani e rise. «La mia anima non è nulla per me», rispose. «Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco».

«Che cosa mi darai, se te lo dico?» chiese la Strega, guardandolo con i suoi bellissimi occhi.

«Cinque pezzi d’oro», disse lui,«e le mie reti, e la casa di canne dove vivo, e la barca dipinta con cui vado in mare. Dimmi solo come liberarmi della mia anima, e ti darò tutto ciò che possiedo».

Lei rise in modo beffardo, e lo colpì con il rametto di cicuta. «Posso trasformare le foglie d’autunno in oro», rispose lei, «e posso tessere i pallidi raggi di luna in argento, se voglio. Colui che servo è più ricco di tutti i re della terra, e i loro domini gli appartengono.»

«Che cosa devo darti, allora», gemette lui, «se il tuo prezzo non è né oro né argento?»

La Strega gli accarezzò i capelli con la sua sottile mano bianca. «Dovrai danzare con me, bel ragazzo», sussurrò, e gli sorrise mentre parlava.

«Nient’altro che questo?» esclamò il giovane Pescatore, meravigliato, e si alzò in piedi.

«Nient’altro che questo», rispose lei, e gli sorrise di nuovo.

«Allora danzeremo insieme al tramonto, in qualche posto segreto», disse lui, «e dopo che avremo danzato, tu mi dovrai dire la cosa che desidero sapere.»

Lei scosse il capo. «Quando la luna è piena, quando la luna è piena», mormorò. Poi si guardò tutto intorno e stette in ascolto. Un uccello azzurro si levò stridendo dal suo nido e volò in cerchio sulle dune, e tre uccelli maculati stormirono sotto la ruvida erba grigia e si fischiarono l’un l’altro. Non c’erano altri suoni se non quello di un’onda che smuoveva i ciottoli lisci. Così lei tese la mano e lo attirò a sé e gli pose all’orecchio le labbra aride.

«Stanotte devi salire in cima alla montagna». bisbigliò. «È un Sabba, e Lui sarà là».

Il giovane Pescatore trasalì e la guardò, e lei scoperse i suoi denti bianchi e rise. «Chi è questo Lui di cui parli?» chiese.

«Non ha importanza», rispose lei. «Vacci stanotte, e fermati sotto i rami del carpino, e aspetta il mio arrivo. Se un cane nero corre verso di te, colpiscilo con una verga di salice, e se ne andrà via. Se un gufo ti parla, non rispondergli. Quando la luna sarà piena io sarò con te, e danzeremo insieme sull’erba».

«Ma mi giuri che mi dirai come allontanare l’anima?» chiese lui.

Lei si spostò alla luce del sole, e i suoi capelli rossi si incresparono al vento. «Per gli zoccoli della capra, te lo giuro», rispose.

«Sei la migliore delle streghe», esclamò il giovane Pescatore, «e io certo danzerò con te stanotte, in cima alla montagna. In verità avrei preferito che mi avessi chiesto oro o argento. Ma qualunque sia il tuo prezzo lo avrai, perché non è che poca cosa». E si tolse il berretto davanti a lei e chinò il capo, e tornò di corsa in città con il cuore pieno di gioia.

E la Strega lo guardò andar via, e quando scomparve alla sua vista entrò nella grotta e, tirato fuori uno specchio da una scatola di cedro intagliato, lo appoggiò a una cornice e davanti ad esso bruciò della verbena su carbone acceso, e scrutò attraverso gli anelli di fumo. E dopo un po’ serrò i pugni, irritata. «Doveva essere mio», mormorò, «io sono bella quanto lei».

E quella sera, quando la luna spuntò, il giovane Pescatore salì in cima alla montagna, e stette fermo sotto i rami del carpino. Come uno scudo di metallo lucido il mare rotondo giaceva ai suoi piedi, e le ombre dei pescherecci si muovevano nella piccola baia. Un grande corvo dagli occhi sulfurei lo chiamò per nome, ma lui non rispose. Un cane nero gli corse incontro ringhiando. Lui lo colpì con una verga di salice, e quello scappò guaendo.

A mezzanotte le streghe arrivarono volando in aria come pipistrelli. «Fiùù!» esclamarono atterrando, «qui c’è qualcuno che non conosciamo!» E si misero ad annusare qua e là, a parlottare tra loro, e a far segni. Per ultima arrivò la giovane Strega con i suoi capelli rossi sciolti al vento. Indossava un vestito di tessuto d’oro ricamato a occhi di pavone, e sul capo portava un piccolo cappello di velluto verde.

«Dov’è, dov’è?» strillarono le streghe alla sua vista, ma lei si limitò a ridere, e corse al carpino; e prendendo il giovane Pescatore per mano lo portò alla luce della luna e iniziò a danzare.

Giravano intorno vorticando, e la giovane Strega saltava così in alto che lui poteva vedere i tacchi rossi delle sue scarpe. Poi proprio in mezzo ai danzatori giunse il rumore di un cavallo al galoppo, ma non si vide nessun cavallo, e lui ebbe paura.

«Più svelto» gridò la Strega, e gli gettò le braccia al collo, e lui sentì sul suo viso il calore del suo respiro. «Più svelto, più svelto!» gridò, e la terra sembrava separarsi sotto i suoi piedi, e il cervello si annebbiava, e un gran terrore lo colse, come se qualcosa di malvagio lo stesse fissando; e infine si rese conto che sotto l’ombra di una roccia c’era una figura che prima non era là.

Era un uomo con un abito di velluto nero, tagliato alla moda spagnola. Il suo viso era di uno strano pallore, ma le sue labbra erano simili ad un superbo fiore rosso. Sembrava stanco, e se ne stava straiato all’indietro giocherellando svogliatamente con il pomo del suo pugnale. Di fianco a lui sull’erba giaceva un cappello piumato, e un paio di guanti da equitazione bordati di pizzo dorato e ricamati con fili di perle in uno strano intreccio. Un corto mantello foderato di zibellino pendeva dalla sua spalla, e le sue delicate mani bianche erano inanellate di gemme. Spesse ciglia gli ombreggiavano gli occhi.

Il giovane Pescatore lo guardava come se ne fosse rimasto incantato. infine i loro sguardi si incontrarono, e dovunque danzasse gli sembrava di aver addosso gli occhi di quell’uomo. Sentì la Strega ridere, e la cinse alla vita, e la fece volteggiare sempre più follemente.

Improvvisamente un cane abbaiò nel bosco e i danzatori si fermarono; e avanzando appaiati, si inginocchiarono e baciarono le mani dell’uomo. Mentre lo facevano, un sorrisetto sfiorava le sue labbra altere, come l’ala di un uccello che tocca l’acqua e la fa ridere. Ma c’era sdegno in quel sorriso. Continuò a fissare il giovane Pescatore.

«Vieni! adoriamo!» bisbigliò la strega e lo condusse a lui; e lui fu colto da un gran desiderio di fare come lei gli chiedeva, e la seguì. Ma quando gli fu vicino, senza sapere perché, si fece il segno della croce sul petto e chiamò il santo nome.

Appena lo fece, le streghe gridarono come falchi e volarono via; e il pallido volto che lo fissava si contorse in uno spasmo di dolore. L’uomo andò in un boschetto e fischiò. Un asino bardato d’argento corse verso di lui. Mentre saliva in sella, si girò e guardò tristemente il giovane Pescatore.

E la strega dai capelli rossi cercò di volare via anche lei, ma il giovane Pescatore la prese per i polsi e la strinse forte.

«Lasciami», gridò lei, «e fammi andare. Perché tu hai nominato quello che non si deve nominare, e mostrato il segno che non si deve guardare».

«No», replicò lui, «non ti lascio andare finché non mi dici il segreto».

«Quale segreto?» disse la Strega, che lottava con lui come un gatto selvatico e si mordeva le labbra chiazzate di schiuma.

«Tu lo sai» le rispose.

I suoi occhi verdi come l’erba si annebbiarono di lacrime e disse al Pescatore: «Chiedimi qualunque altra cosa, ma questo no!»

Lui rise, e la strinse ancora di più.

E quando capì che non poteva liberarsi, lei gli sussurrò: «Di sicuro io sono bella quanto le figlie del mare, e altrettanto avvenente di coloro che dimorano nelle acque azzurre» e gli fece delle moine e avvicinò il viso a quello di lui.

Ma lui la respinse accigliandosi e le disse: «Se non mantieni la promessa che mi hai fatto, ti ucciderò, perché sei una strega bugiarda.»

Lei si fece grigia come un fiore dell’albero di Giuda, e rabbrividì. «E sia», mormorò. «L’anima è la tua, non la mia. Fai come credi». E dalla cinta estrasse un piccolo pugnale con il manico in verde pelle di vipera, e glielo porse.

«A cosa mi servirà?» le chiese lui, perplesso.

Lei restò qualche istante in silenzio, e un’espressione di terrore le calò sul volto Poi si scostò i capelli dalla fronte e con uno strano sorriso gli disse: «Ciò che gli uomini chiamano ombra del corpo non è l’ombra del corpo, ma il corpo dell’anima. Fermati sulla sponda del mare con le spalle alla luna, e taglia via dai tuoi piedi l’ombra, che il corpo della tua anima, e ordina alla tua ombra di lasciarti, e lei lo farà».

Il giovane Pescatore tremò. «È vero?» mormorò.

«È vero, e vorrei non avertelo detto», gridò lei, e gli abbracciò le ginocchia piangendo.

Lui la scostò da sé e la abbandonò nell’erba rigogliosa, e raggiunto il costone della montagna si mise il coltello nella cintola e iniziò la discesa.

E la sua Anima, che era dentro di lui, lo chiamò e gli disse: «Senti! Ho dimorato dentro di te per tutti questi anni, e sono stata tua serva. Non mandarvi via da te adesso; che male ti ho fatto?»

E il giovane Pescatore rise. «Tu non mi hai fatto alcun male, ma non ho bisogno di te», rispose. «Il mondo è grande, e c’è anche il Paradiso, e l’Inferno, e quella cupa casa del crepuscolo che sta in mezzo a questi due. Va’ dove ti pare, ma non infastidirmi, perché il mio amore mi sta chiamando».

E la sua Anima lo supplicò pietosamente, ma lui non le dava retta, saltava di crepaccio in crepaccio con passo sicuro come una capra selvatica, e infine raggiunse il livello del mare e la spiaggia gialla.

Con membra bronzee e ben formato, come una statua forgiata da un greco, stava in piedi sulla sabbia con la luna alle spalle, e fuori dalla spuma emersero bianche braccia che lo chiamavano, e fuori dalle onde sorsero forme indistinte che gli rendevano omaggio. Davanti a lui si stendeva la sua ombra, che era il corpo della sua anima, e dietro di lui pendeva la luna nell’aria color miele.

E la sua Anima gli disse:«Se davvero mi devi allontanare da te, non mandarmi via senza un cuore. Il mondo è crudele, dammi il tuo cuore da portare con me».

Lui scosse il capo e sorrise. «Con cosa potrei amare il mio amore se dessi il mio cuore a te?» esclamò.

«No, ma abbi pietà», disse la sua Anima, «dammi il tuo cuore, perché il mondo è molto crudele e ho paura».

«Il mio cuore è del mio amore», rispose lui,«perciò non indugiare, vattene via».

«Non potrei amare anch’io?» chiese la sua Anima.

«Vattene, perché non mi servi», gridò il giovane Pescatore, e prese il piccolo coltello con il pugnale di pelle di vipera verde, e tagliò via la sua ombra dai suoi piedi, ed essa si alzò in piedi di fronte a lui, e lo guardò, ed era identica a lui.

Lui indietreggiò, e infilò il coltello nella cintola, e fu invaso da una sensazione di terrore. «Vattene», mormorò, «e non farmi vedere più il tuo viso».

«No, ci dovremo vedere ancora», disse l’Anima. La sua voce era bassa e flautata, e le due labbra si muovevano appena mentre parlava.

«Come ci incontreremo?», esclamò il giovane Pescatore. «Non mi seguirai mica in fondo al mare?»

«Una volta ogni anno verrò in questo posto e ti chiamerò», disse l’Anima. «Forse tu avrai bisogno di me».

«Che bisogno potrei mai avere di te?» esclamò il giovane Pescatore, «ma sia come vuoi tu» e si tuffò in acqua, e i Tritoni suonarono i loro corni e la piccola Sirena risalì per incontrarlo, e gli mise le braccia al collo e lo baciò sulla bocca.

E l’Anima se ne stava nella spiaggia solitaria e li osservava. E quando si immersero nel mare, se ne andò piangendo verso le paludi.

****

Quando fu trascorso un anno l’Anima scese in riva al mare e chiamò il giovane Pescatore, e lui emerse da fondo e disse «Perché mi chiami?»

E l’Anima rispose «Vieni più vicino affinché possa parlarti, perché ho visto cose meravigliose».

Quindi lui si avvicinò e si distese dove l’acqua era poco profonda, e con la testa appoggiata sulla mano ascoltò.

E l’Anima gli disse: «Quando ti ho lasciato ho girato il viso verso Oriente e ho viaggiato. Dall’Oriente viene tutto ciò che è saggio. Ho viaggiato sei giorni, e la mattina del settimo giunsi ad una collina che si trova nel paese dei Tartari. Mi sedetti all’ombra di un albero di tamerice per proteggermi dal sole. La terra era secca e arsa dal caldo. La gente andava avanti e indietro sulla pianura come mosche striscianti su un disco di lucido rame.

Quando fu mezzogiorno una nuvola di polvere rossa si alzò dal piatto bordo del paese. Quando i Tartari la videro, tesero i loro archi dipinti e, balzati in groppo ai loro cavallini, le galopparono incontro. Le donne fuggirono urlando ai carri, e si nascosero dietro le tende di feltro.

Al crepuscolo i Tartari tornarono, ma ne mancavano cinque, e tra quelli che erano tornati non pochi erano feriti. Legarono i cavalli ai carri e partirono di corsa. Tre sciacalli uscirono da una grotta e scrutarono nella direzione che quelli avevano preso. Fiutarono l’aria con le narici e trottarono nella direzione opposta.

Al sorgere della luna vidi un fuoco da campo che ardeva nel piano e mi diressi verso di esso. Vi erano intorno un gruppo di mercanti seduti su dei tappeti. Dietro avevano legato i loro cammelli ai picchetti, e i negri loro servi stavano montando sulla sabbia tende di pelli conciate, e innalzavano un alto muro di fichi d’India.

Quando mi avvicinai a loro, il capo dei mercanti si alzò, estrasse la sua spada e mi chiese chi ero.

Risposi che nella mia terra ero un Principe, e che ero fuggito dai Tartari che avevano cercato di farmi loro schiavo. Il capo sorrise e mi mostrò cinque teste conficcate su lunghe canne di bambù.

Poi mi chiese chi era il profeta di Dio, e io risposi Maometto.

Quando udì il nome del falso profeta, si inchinò, mi prese per mano e mi fece sedere al suo fianco. Un negro mi portò del latte di giumenta in un piatto di legno, e un pezzo di agnello arrostito. All’alba cominciammo il nostro viaggio. Cavalcavo un cammello dal pelo rosso a fianco del capo, e ci precedeva un corridore con una lancia in mano. Gli uomini armati stavano su entrambi i lati e le mule ci seguivano con la mercanzia. C’erano quaranta cammelli nella carovana, e le mule erano due volte tanto.

Ci muovemmo dal paese dei Tartari verso quello di coloro che maledicono la Luna. Abbiamo visto i Grifoni a guardia del loro oro sulle bianche rocce, e i Dragoni squamosi addormentati nelle loro grotte. Quando passammo sulle montagne, trattenevamo il respiro perché la neve non ci travolgesse, e ogni uomo si legò un velo di garza davanti agli occhi. Quando passammo le valli, i Pigmei ci tiravano frecce dal cavo degli alberi, e di notte abbiamo udito i selvaggi percuotere i loro tamburi. Quando arrivammo alla Torre delle Scimmie abbiamo deposto frutti davanti a loro, e non ci hanno fatto niente. Quando arrivammo alla Torre dei Serpenti abbiamo dato loro del latte caldo in ciotole d’ottone, e ci lasciarono proseguire. Tre volte nel nostro viaggio siamo giunti alle sponde dell’Osso. Lo abbiamo attraversato su zattere di legno con grandi e gonfie vesciche di pelle. Gli ippopotami ci videro e tentarono di ucciderci. Nel vederli, i cammelli tremavano.

I re di ogni città ci imposero pedaggi, ma non ci permisero di varcare le loro porte. Ci lanciarono pane da sopra le mura, piccole torte di mais arrostite sul miele e dolci di farina fine ripieni di datteri. Ogni cento canestri noi gli davamo un grano d’ambra.

Quando gli abitanti dei villaggi ci vedevano arrivare, avvelenavano i pozzi e correvano in cima alle colline. Ci siamo battuti con i Magadi che sono nati vecchi e ogni anno ringiovaniscono, morendo da neonati; e con i Lactri che dicono di essere figli delle tigri e si dipingono di giallo e nero; e con gli Auranti che seppelliscono i lor morti nelle cime degli alberi e vivono in oscure caverne per evitare che il Sole, il loro Dio, li uccida; e con i Krimniani che adorano un coccodrillo e gli danno orecchini di erba verde e lo nutrono con burro e pollame fresco; e con gli Agazonbi, che hanno un viso da cane; e con i Sibani, che hanno piedi di cavallo e corrono più veloci dei cavalli. Un terzo della nostra compagnia morì in battaglia e un terzo morì di stenti. I rimanenti mormoravano contro di me, e dicevano che io gli avevo portato la malasorte. Io da dietro un sasso presi una vipera cornuta e lasciai che mi mordesse. Quando videro che non stavo male ebbero paura.

Il quarto mese raggiungemmo la città di Illel. Era notte quando arrivammo al boschetto fuori le mura, e l’aria era afosa perché la Luna era nello Scorpione. Prendemmo dagli alberi i melograni maturi e li rompemmo, e ne bevemmo il dolce succo. Poi ci sdraiammo sui nostri tappeti e aspettammo l’alba.

E all’alba ci alzammo e bussammo alla porta della città. Era di bronzo rosso e intagliata con dragoni marini e dragoni alati. Le guardie si affacciarono dai bastioni e ci chiesero chi fossimo. L’interprete della carovana rispose che venivamo dall’isola di Siria con molta mercanzia. Presero degli ostaggi e ci dissero che ci avrebbero aperto la porta a mezzogiorno e ci ordinarono di aspettare fino ad allora.

Quando fu mezzogiorno aprirono la porta e quando noi entrammo la gente uscì in folla dalle case per vederci, e un banditore fece il giro della città gridando attraverso una conchiglia. Ci fermammo nella piazza del mercato, e i negri slegarono le balle di tessuti con figure, e aprirono bauli di sicomoro intagliato. E quand’essi ebbero portato a termine il loro compito, i mercanti dispiegarono le loro strane merci, i lini incerati dall’Egitto e i lini dipinti della terra degli Etiopi, le spugne porpora di Tiro e gli arazzi azzurri di Sidone, le tazze di fredda ambra e i fini vassoi di vetro e gli strani vassoi di terracotta. Dal tetto di una casa un gruppo di donne ci osservava. Una di loro indossava una maschera di cuoio dorato.

E il primo giorno vennero i sacerdoti e barattarono con noi, e il secondo giorno arrivarono i nobili, e il terzo giorno vennero artigiani e schiavi. E questa è la loro usanza con tutti i mercanti che sostano in città

E noi sostammo per una luna, e quando la luna stava calando, Io mi stancai e gironzolai per le strade della città, e arrivai al giardino del suo dio. I sacerdoti nelle loro vesti gialle si muovevano silenziosi tra i verdi alberi, e sul pavimento di marmo nero si ergeva la casa rosso-rosa in cui dimorava il dio. Le sue porte erano di lacca in polvere, intarsiate con tori e pavoni in oro sbalzato e levigato. Il tetto inclinato era di porcellana verdemare, e le grondaie sporgenti erano addobbate con campanellini. Quando le bianche colombe passavano in volo, colpivano i campanellini con le loro ali e li facevano tintinnare.

Davanti al tempio c’era una vasca di acqua limpida lastricata di onice venata. Mi ci sdraiai accanto, e con le mie pallide dita toccai le larghe foglie. Uno dei sacerdoti venne verso di me e si fermò alle mie spalle. Aveva dei sandali ai piedi, uno di morbida pelle di serpente e l’altro di piume d’uccello. Sul capo aveva una mitra di feltro nero decorata di mezzelune d’argento. Sette tonalità di giallo erano tessute nella sua tunica, e i suoi capelli brizzolati erano chiazzati di antimonio.

Dopo un po’ mi parlò e mi chiese il mio desiderio.

Gli dissi che il mio desiderio era vedere il dio.

«Il dio sta cacciando», disse il sacerdote, guardandomi in modo strano con i suoi piccoli occhi obliqui.

«Dimmi in quale foresta, e cavalcherò con lui», risposi.

Lui si pettino le morbide frange della tunica con le sue lunghe unghie appuntite. «Il dio dorme», mormorò.

«Dimmi in quale giaciglio, e veglierò al suo fianco», risposi.

«Il dio è al banchetto», esclamò.

«Se il vino è dolce, lo berrò con lui, e se è amaro lo berrò con lui lo stesso», fu la mia risposta.

Lui chinò il capo meravigliato e, prendendomi per mano, mi fece alzare e mi condusse nel tempio.

Nella prima stanza vidi un idolo seduto su un trono di diaspro bordato di grandi perle orientali, Era intagliato nell’ebano e di statura umana. Sulla fronte aveva un rubino e un olio denso colava dai capelli fino alle cosce. I suoi piedi erano rossi del sangue di un capretto appena ucciso, e i suoi lombi cinti da una cintura di rame tempestata da sette berilli.

E io dissi al sacerdote: «È questo il dio?» E lui mi rispose «Questo è il dio».

«Mostrami il dio», gridai, «o stai sicuro che ti ammazzo». E toccai la sua mano, che si rattrappì.

E il sacerdote mi supplicò dicendo «Che il mio signore risparmi il suo servo, e io gli mostrerò il dio».

Così alitai sulla sua mano ed essa tornò sana, e lui tremò e mi condusse nella seconda camera, e io vidi un idolo in piedi su un loto di giada appeso con grandi smeraldi. Era scolpito nell’avorio, e la sua statura era il doppio di quella umana. Sulla sua fronte aveva un crisolito, e il petto era spalmato di mirra e cinnamomo, In una mano teneva un ricurvo scettro di giada, e nell’altra un cristallo rotondo. Portava coturni di ottone e il suo collo robusto era circondato con un cerchio di seleniti.

E io dissi al sacerdote: «È questo il dio?»

E lui mi rispose «Questo è il dio».

«Mostrami il dio», gridai, «o stai sicuro che ti ammazzo». E toccai i suoi occhi, che divennero ciechi.

E il sacerdote mi supplicò dicendo «Che il mio signore risparmi il suo servo, e io gli mostrerò il dio».

Così alitai sui suoi occhi ed essi recuperarono la vista, e lui tremò ancora, e mi condusse nella terza camera, ed ecco! Non c’erano idoli là, né immagini di alcun tipo, ma solo uno specchio di metallo rotondo sopra un altare di pietra.

E io dissi al sacerdote: «Dov’è il dio?»

E lui mi rispose: «Non c’è il dio, eccetto questo specchio che tu vedi, che è lo Specchio della Saggezza. Esso riflette tutte le cose in cielo e in terra, tranne la faccia di colui che vi guarda dentro. Quella non la riflette, cosicchè colui che vi guarda possa essere saggio. Ci sono molti altri specchi qui, ma sono specchi di Opinione. Questo soltanto è lo Specchio della Saggezza. E chi possiede questo specchio sa ogni cosa, non c’è niente che gli si possa nascondere. E coloro che non lo possiedono non hanno Saggezza. Perciò questo è il dio e noi lo veneriamo». E io guardai nello specchio, ed era come lui mi aveva detto.

E io feci una cosa strana, ma quello che feci non ha importanza, perché in una valle che dista solo un giorno da qui ho nascosto lo Specchio della Saggezza. Permettimi di entrare di nuovo in te ed essere tuo servo, e tu sarai il più saggio tra i saggi, e la Saggezza sarà tua. Permettimi di entrare in te e nessuno sarà saggio quanto te».

Ma il giovane Pescatore rise. «L’amore è meglio della Saggezza», esclamò, «e la piccola Sirena mi ama».

«No, non c’è niente di meglio della Saggezza», disse l’Anima.

«L’amore è meglio», rispose il giovane Pescatore, e si immerse nel profondo, e l’Anima se ne andò piangendo oltre le paludi.

E quando il secondo anno fu trascorso, l’Anima scese alla sponda del mare e chiamo il giovane Pescatore, e lui emerse dal profondo e disse: «Perché mi chiami?»

E l’Anima rispose «Vieni più vicino, affinché possa parlarti, perché ho visto cose meravigliose».

Quindi lui si avvicinò e si distese dove l’acqua era poco profonda, e con la testa appoggiata sulla mano ascoltò.

E l’Anima gli disse: «Quando ti ho lasciato ho girato il viso verso Sud e ho viaggiato. Dal Sud viene tutto ciò che è prezioso. Sei giorni ho viaggiato sulle strade che portano alla città di Ashter, viaggiai lungo le strade polverose e tinte di rosso che i pellegrini sono soliti percorrere, e la mattina del settimo giorno alzai gli occhi ed ecco! La città si stendeva ai miei piedi, poiché si trovava in una valle.

Ci sono nove porte per entrare in questa città e di fronte a ogni porta c’è un cavallo di bronzo che nitrisce quando i Beduini scendono dalle montagne. I muri sono rivestiti di rame e le torri di guardia hanno il tetto in ottone. In ogni torre sta un arciere con un arco in pugno. All’alba egli colpisce un gong con una freccia, e al tramonto soffia in un corno d’osso.

Quando cercai di entrare, le guardie mi fermarono e mi chiesero chi fossi. Io risposi che ero un Derviscio in cammino per la città della Mecca, dove c’era un velo verde su cui le mani degli angeli avevano ricamato il Corano in lettere d’argento. Furono colmi di meraviglia e mi pregarono di passare.

Dentro è come un bazar. Avresti dovuto esserci! Attraverso le strette stradine le gaie lanterne di carta volteggiano come larghe farfalle. Quando il vento soffia sui tetti, esse si alzano e cadono come bolle colorate. Di fronte alle loro botteghe siedono i mercanti sui tappeti di seta. Hanno barbe nere dritte e i loro turbanti sono coperti con zecchini d’oro, e tra le loro dita scivolano lunghi fili d’ambra e noccioli di pesca intagliati. Alcuni di loro vendono galbano e nardo, e strani profumi delle isole dell’Oceano Indiano, e il denso olio delle rose rosse, e mirra e piccoli chiodi di garofano a forma di unghia. Quando qualcuno si ferma a parlare con loro, gettano pizzichi di incenso su un braciere di cartone e fanno diventare l’aria dolce. Ho visto un siriano che teneva in mano una verga sottile come una canna. Da essa fuoriuscivano grigi fili di fumo, e mentre bruciava c’era un odore come quello delle mandorlo rosa a primavera. Altri vendevano braccialetti d’argento tutti lavorati a sbalzo con turchesi di un intenso colore azzurro, e catenelle per le caviglie in filo d’ottone frangiate di perline, e artigli di tigre montati in oro, e artigli di quel gatto dorato, il leopardo, montati anch’essi in oro, e orecchini di smeraldo forato, e anelli di giada scavata. Dalle case da tè arriva un suono di chitarra e i fumatori d’oppio con le loro bianche facce sorridenti guardano fuori la gente che passa.

Avresti dovuto esserci! I venditori di vino si fanno largo tra la folla con grandi pelli nere sulle spalle. Per la maggior parte vendono il vino di Schiraz, che è dolce come il miele. Lo servano in tazzine di metallo e vi spargono sopra petali di rose. Nella piazza del mercato stazionano i venditori di frutta, che vendono ogni tipo di frutti: fichi maturi, con la loro ammaccata polpa purpurea, meloni che sanno di muschio e gialli come topazi, cedri e melerosa e grappoli d’uva bianca, rotonde arance rosso-dorate, e limoni ovali verdeoro. Una volta vidi passare un elefante. La sua proboscide era dipinta di vermiglio e curcuma, e sopra le orecchie aveva una rete di cordoni di seta cremisi. Si fermò davanti a una bancarella e cominciò a mangiare le arance, e l’uomo si limitò a ridere. Non puoi neanche immaginare che tipi strani sono. Quando sono felici vanno dai venditori di uccelli e comprano un uccello in gabbia e lo liberano, per gioire ancora di più; e quando sono tristi si fustigano con le spine per non far diminuire il dolore.

Una sera ho incontrato dei negri che trasportavano per il bazar un pesante baldacchino. Era fatto di bambù dorato e i pali erano di lacca vermiglia tempestata di pavoni d’ottone. Alle finestre pendevano sottili tendine di mussola ricamata di ali di scarabeo e piccole perline, e mentre passava una Circassa dal volto pallido si affacciò e mi sorrise. Mi misi al loro seguito, e i negri affrettarono il passo e si accigliarono. Ma non mi preoccupai. Mi sentivo preso da una gran curiosità.

Infine si fermarono davanti a una casa bianca quadrata. Non aveva finestre, solo una piccola porta come quelle delle tombe. Posarono il baldacchino e bussarono tre volte con un martello di rame. Un Armeno in un caftano di cuoio verde spiò attraverso la grata, e quando li vide li aprì e dispiegò un tappeto per terra, e la donna scese. Come stava per entrare, si girò e mi sorrise ancora. Non avevo mai visto nessuno tanto pallido.

Quando sorse la luna ritornai nello stesso posto e cercai la casa, ma non c’era più. Quando vidi questo, capii chi era la donna e perché mi aveva sorriso.

Avresti dovuto esserci! Alla festa della Luna Nuova il giovane Imperatore uscì dal suo palazzo e andò alla Moschea per pregare. I suoi capelli e la sua barba erano tinti con petali di rosa, e le due guance erano incipriate con una fine polvere d’oro. Aveva i palmi delle mani e dei piedi gialli di zafferano.

All’alba uscì dal suo palazzo con una veste d’argento, e al tramonto ritornò con una veste d’oro. La gente si gettò a terra e si coprì il volto, ma io non lo feci. Rimasi in piedi vicino al banco di un venditore di datteri e aspettai. Quando l’imperatore mi vide, alzò le sue sopracciglia dipinte e si fermò. Rimasi immobile e non gli feci l’inchino. La gente si stupì della mia superbia e mi consigliò di fuggire dalla città. Non detti loro retta, ma andai a sedermi con i venditori di strani idoli, che a causa della loro professione sono emarginati. Quando dissi loro cosa avevo fatto, ognuno mi diede un idolo pregandomi di andarmene.

Quella notte, mentre giacevo su un cuscino nella casa da tè che si trova nella via dei Melograni, le guardie dell’Imperatore entrarono e mi condussero a palazzo. Non appena entravo chiudevano ogni porta alle mie spalle e la sprangavano con una catena. Dentro c’era un grande cortile tutto circondato da un porticato. I muri erano di bianco alabastro, tassellati qua e là con mattonelle verdi e azzurre. Le colonne erano di marmo verde, e il pavimento di una specie di marmo color fior di pesco. Non avevo mai visto niente del genere.

Mentre attraversavo il cortile, due donne velate mi guardarono da un balcone e mi maledissero. Le guardie si affrettarono e la punta delle loro lance risuonò sul lucidò pavimento. Aprirono un cancello in avorio lavorato e mi ritrovai in un giardino con fontane e a sette terrazze. Vi erano piantati tulipani, convolvoli e aloe stellate. Simile ad uno snello giunco di cristallo, una fontana pendeva nell’aria del crepuscolo. I cipressi erano come torce bruciate. Da uno di essi cantava un usignolo.

In fondo al giardino sorgeva un piccolo padiglione. Mentre ci avvicinavamo due eunuchi uscirono per venirci incontro. I loro corpi grassi ondeggiavano nel camminare e mi guardavano curiosi con i loro occhi dalle palpebre gialle. Uno di loro trasse da parte il capitano delle guardie e gli bisbigliò qualcosa a bassa voce. L’altro continuava a masticare pastiglie aromatiche, che prendeva con un gesto affettato da una scatola ovale di smalto lilla.

Dopo qualche istante il capitano delle guardie congedò i soldati. Essi tornarono al palazzo, seguiti a passo lento dagli eunuchi che passando coglievano le dolci more dagli alberi. Una volta il più anziano dei due si voltò e mi rivolse un sorriso malvagio.

Poi il capitano delle guardie mi indicò l’ingresso del padiglione. Avanzai senza tremare ed entrai scostando la pesante tenda.

Il giovane Imperatore era disteso su un divano di pelli di leoni tinte, e un falcone gli stava appollaiato al polso. Dietro di lui stava ritto un Nubiano con un turbante di ottone, nudo fino alla vita e con pesanti orecchini sulle orecchie tagliate in due. Su un tavolo vicino al divano era posata una pesante scimitarra di acciaio.

Quando l’imperatore mi vide si accigliò e mi disse: «Come ti chiami? Non sai che io sono l’Imperatore di questa città?» Ma io non risposi.

Con il dito indicò la scimitarra, e il Nubiano la afferrò e slanciandosi in avanti mi colpì con gran violenza. La lama mi passò attraverso sibilando, e non mi fece alcun male. L’uomo cadde steso a terra, e quando si alzò gli battevano i denti dalla paura e si nascose dietro il divano.

L’imperatore balzò in piedi e, presa una lancia da un’armigliera, me la tirò addosso. La presi al volo e spezzai l’asta in due. Mi tirò una freccia ma io alzai le mani e la fermai a mezz’aria. Allora estrasse un pugnale da una cintura di cuoio bianco e tagliò la gola al Nubiano perché lo schiavo non raccontasse il suo disonore. L’uomo si contorse come un serpente calpestato e una schiuma rossa gli uscì dalle labbra.

Quando si spense, l’Imperatore si girò verso di me e, asciugatosi il sudore lucido dalla fronte con un fazzolettino d’oro e seta purporea, mi disse: «Sei tu un profeta, visto che non posso ferirti, o il figlio di un profeta, visto che non posso farti male? Ti prego di lasciare la mia città stanotte, perché mentre tu sei qui io non sono più il suo signore».

E io gli risposi: «Me ne andrò in cambio di metà delle tue ricchezze. Dammi metà delle tue ricchezze, e io me ne andrò via».

Lui mi prese per mano e mi condusse fuori in giardino. Quando il capitano delle guardie mi vide si stupì. Quando mi videro gli eunuchi, le loro ginocchia tremarono e caddero a terra spaventati.

C’è una stanza nel palazzo che ha otto pareti di porfido rosso, e un soffitto con scaglie d’ottone da cui pendono lampade. L’Imperatore toccò una delle pareti ed essa si aprì, e noi passammo per un corridoio illuminato da molte torce. Da un lato e dall’altro all’interno di nicchie c’erano grandi otri di vino pieni fino all’orlo di pezzi d’argento. Quando arrivammo al centro del corridoio l’Imperatore disse la parola che non si può dire, e si mise le mani davanti al viso per evitare di essere accecato.

Non puoi proprio immaginare quanto fosse meraviglioso quel luogo. C’erano pesanti gusci di tartaruga pieni di perle e grandi pietre lunari incavate ricolme di rubini rossi. L’oro era riposto in forzieri di pelle di elefante, e la polvere d’oro in otri di pelle. C’erano opali e zaffiri, gli uni in coppe di cristallo e gli altri in coppe di giada. Intorno verdi smeraldi erano sistemati in ordine su sottili piatti di avorio, e in un angolo c’erano borse di seta, alcune piene di turchesi e altre di berilli. I corni d’avorio erano pieni di ametiste viola, e i corni d’ottone di calcedonie e corniole. Dalle colonne, che erano di cedro, pendevano filze di gialli occhi di lince. Negli ovali piatti scuri c’erano carbonchi sia color del vino sia color dell’erba. E ancora non ti ho detto che una decima parte di quello che c’era lì.

E quando l’Imperatore si fu tolto le mani dal viso, mi disse: «Questa è la mia casa del tesoro, e metà di quello che c’è qui dentro è tuo, così come ti ho promesso. E ti darò cammelli e cammellieri, ed essi ti dovranno obbedire e porteranno la tua parte di tesoro in qualsiasi parte del mondo tu voglia andare. E la cosa sarà fatta stanotte, perché non voglio che il Sole, che è mio padre, veda che in città c’è un uomo che non posso uccidere».

Ma io gli risposi: «L’oro che è qui è tuo, e anche l’argento è tuo, e tuoi sono i gioielli preziosi e le cose di valore. Quanto a me, a me non servono. Né prenderò altro da te, se non quel piccolo anello che hai al dito della tua mano».

E l’Imperatore corrugò la fronte. «Non è che un anello di piombo», esclamò, «non ha alcun valore. Perciò prendi metà del tesoro e vai via dalla mia città».

«No», risposi io, «non prenderò altro che quell’anello di piombo, perché io so cosa c’è scritto al suo interno, e a cosa serve».

E l’Imperatore tremò, e mi implorò dicendo: «Prendi tutto il tesoro e vattene dalla mia città. Anche la metà che è mia sarà tua».

E io feci una cosa strana, ma quello che feci non ha importanza, perché in una grotta che dista solo un giorno di viaggio da qui io ho nascosto l’Anello delle Ricchezze. Si trova solo ad un giorno di cammino da qui, e aspetta la tua venuta. Colui che possiede questo Anello è più ricco di tutti i Re della terra. Perciò vieni a prenderlo, e tutte le ricchezze del mondo saranno tue».

Ma il giovane Pescatore rise. «L’amore è meglio delle Ricchezze», esclamò, «e la piccola Sirena mi ama».

«No, non c’è niente di meglio delle Ricchezze», disse l’Anima.

«L’amore è meglio», rispose il giovane Pescatore, e si immerse nel profondo, e l’Anima se ne andò piangendo oltre le paludi.

E quando il terzo anno fu trascorso, l’Anima scese alla sponda del mare e chiamo il giovane Pescatore, e lui emerse dal profondo e disse: «Perché mi chiami?»’

E l’Anima rispose «Vieni più vicino, affinché possa parlarti, perché ho visto cose meravigliose».

Quindi lui si avvicinò e si distese dove l’acqua era poco profonda, e con la testa appoggiata sulla mano ascoltò.

E l’Anima gli disse: «Laggiù in una città che conosco c’è una locanda vicino al fiume. Mi sono seduto là con i marinai che hanno bevuto vini di due colori diversi, e hanno mangiato pane d’orzo e piccoli pesci salati serviti dentro foglie d’alloro con aceto. E mentre eravamo seduti lì in allegria, entrò per noi un uomo anziano che portava un tappeto di cuoio e un liuto che aveva due corni d’ambra. E quando lui ebbe disteso il tappeto per terrà, colpì con una penna le corde del suo liuto, e una ragazza con il volto velato arrivò di corsa e iniziò a danzare davanti a noi. Il suo viso era velato con un velo di garza, ma i suoi piedi erano nudi. Nudi erano i suoi piedi, e si muovevano sul tappeto come piccole bianche colombe. Non ho mai visto niente di così meraviglioso; e la città in cui lei danza dista solo un giorno di viaggio da qui».

Quando il giovane Pescatore sentì le parole della sua Anima, ricordò che la piccola Sirena non aveva piedi e non poteva danzare. E un grande desiderio lo invase, e disse tra sé: «Non è che a un giorno di viaggio, e posso tornare dal mio amore», e rise, e si alzò in piedi nell’acqua poco profonda, e si diresse a grandi passi verso la riva.

E quando ebbe raggiunto la riva asciutta rise di nuovo, e tese le braccia alla sua Anima. E la sua Anima gridò di gioia, gli corse incontro ed entrò in lui, e il giovane Pescatore vide che davanti a lui sulla sabbia era distesa quell’ombra del corpo che è il corpo dell’Anima.

E la sua Anima gli disse: «Non indugiamo, andiamo subito via da qui, perché gli Dei del Mare sono gelosi e hanno mostri che obbediscono ai loro ordini».

****

Così si affrettarono, e tutta la notte viaggiarono sotto la luna, e tutto il giorno dopo viaggiarono sotto il sole, e la sera di quel giorno arrivarono in una città.

E il giovane Pescatore disse alla sua Anima: «È questa la città in cui danza colei di cui mi hai parlato?»

E la sua Anima gli rispose: «Non è questa città, ma un’altra. Comunque andiamoci lo stesso». E così entrarono e passarono per le strade, e quando passarono per la Strada dei Gioiellieri il giovane Pescatore vide una bella coppa d’argento esposta in un banco. E la sua Anima gli disse: «Prendi questa coppa d’argento e nascondila».

E così prese la coppa e la nascose nella piega della sua tunica, e abbandonarono in fretta la città.

E dopo che ebbero percorso una lega dalla città, il giovane Pescatore si accigliò, gettò via la coppa, e disse alla sua Anima: «Perché mi hai detto di prendere questa coppa e di nasconderla? È stata un’azione malvagia».

Ma la sua Anima gli rispose: «Stai calmo, stai calmo».

E la sera del secondo giorno arrivarono ad una città. E il giovane Pescatore disse alla sua Anima: «È questa la città in cui danza colei di cui mi hai parlato?»

E la sua Anima gli rispose: «Non è questa città, ma un’altra. Comunque andiamoci lo stesso». E così entrarono e passarono per le strade, e quando passarono per la Strada dei Venditori di Sandali, il giovane Pescatore vide un bambino in piedi vicino ad una giara d’acqua. E la sua Anima gli disse «Picchia quel bambino». E così lui picchiò il bambino fino a farlo piangere, e quando l’ebbe fatto abbandonarono in fretta la città.

E dopo che ebbero percorso una lega dalla città, il giovane Pescatore si adirò e disse alla sua Anima: «Perché mi hai detto di picchiare quel bambino? È stata un’azione malvagia».

Ma la sua Anima gli rispose: «Stai calmo, stai calmo».

E la sera del terzo giorno arrivarono ad una città. E il giovane Pescatore disse alla sua Anima: «È questa la città in cui danza colei di cui mi hai parlato?»

E la sua Anima gli rispose: «Potrebbe essere questa, perciò andiamoci».

Perciò entrarono e passarono per le strade, ma il giovane Pescatore non poté trovare da nessuna parte il fiume, né la locanda vicino alla sua riva. E gli abitanti della città lo guardavano incuriositi, e lui si spaventò e disse alla sua Anima: «Andiamocene via, perché la danzatrice dai candidi piedi non è qui».

E la sua Anima rispose «No, sostiamo qui, perché la notte è scura e ci saranno i briganti per la strada».

Così lui si mise seduto sulla piazza del mercato e si riposò, e dopo un po’ passo un mercante incappucciato che aveva un mantello di stoffa di Tartaria e portava una lanterna di corno forato all’estremità di una canna dai molti giunti. E il mercante gli disse: «Perché stai seduto nella piazza del mercato, visto che i banchi sono chiusi e le balle legate?»

E il giovane Pescatore rispose: «Non riesco a trovare una locanda in questa città, né ho alcun parente che mi possa dare riparo.»

«Non siamo tutti parenti?» disse il mercante. «E non ci ha creati un unico Dio? Perciò vieni con me, perché ho una camera per gli ospiti».

Così il giovane Pescatore si alzò e seguì il mercante verso casa sua. E dopo aver attraversato un giardino di melograni ed essere entrati nella casa, il mercante gli portò acqua di rose in un piatto di rame affinché si lavasse le mani, e meloni maturi perché si dissetasse, e gli mise davanti una ciotola di riso e un pezzo di capretto arrosto.

E quando ebbe finito, il mercante lo portò nella stanza degli ospiti, e gli disse di dormire e di riposarsi. E il giovane Pescatore lo ringraziò, gli baciò l’anello che aveva alla mano, e si gettò sui tappeti di pelo di capra dipinto. E dopo essersi coperto con una coperta di nera lana di pecora, cadde addormentato.

E tre ore prima dell’alba, mentre era ancora notte, la sua Anima lo svegliò e gli disse: «Alzati e vai nella stanza del mercante, proprio nella stanza in cui dorme, e uccidilo e prendigli il suo oro, perché ne abbiamo bisogno».

E il giovane Pescatore si alzò e sgattaiolò nella stanza del mercante, e sopra i piedi del mercante era appoggiata una spada ricurva, e sul vassoio al suo fianco c’erano nove borse d’oro. E lui allungò la mano e toccò la spada, e quando la toccò il mercante trasalì e si svegliò, e saltando in piedi prese la spada lui stesso e gridò al giovane Pescatore: «Mi restituisci il male per il bene, e mi paghi la gentilezza che ti ho mostrato spargendo il mio sangue?»

E la sua Anima disse al giovane Pescatore «Colpiscilo!» e lui lo colpì, così che quello svenne, e allora lui prese le nove borse d’oro e attraversò di corsa il giardino dei melograni, e volse il viso alla stella del mattino.

E dopo che ebbero percorso una lega della città, il giovane Pescatore si colpì il petto e disse alla sua Anima: «Perché mi hai ordinato di uccidere il mercante e prendergli l’oro? Di certo sei malvagia».

Ma la sua Anima gli rispose: «Stai calmo, stai calmo».

«No», gridò il giovane Pescatore, «Non posso stare calmo, perché odio tutto ciò che mi hai fatto fare. Odio anche te, e ti ordino di dirmi perché ti sei comportata così con me».

E la sua Anima gli rispose: «Quando mi hai mandato per il mondo non mi hai dato un cuore, così ho imparato a fare tutte queste cose e ad amarle».

«Che cosa dici?» mormorò il giovane Pescatore.

«Tu lo sai», rispose l’Anima, «tu lo sai bene. Hai dimenticato che non mi hai dato un cuore? No di sicuro. E perciò non preoccuparti né per te né per me, ma stai tranquillo, perché non c’è dolore che tu non possa dare e non c’è piacere che tu non possa ricevere».

E quando il giovane Pescatore udì queste parole, tremò e disse alla sua Anima: «No, tu sei malvagia, e mi hai fatto scordare il mio amore, e mi hai tentato con le tentazioni, e hai diretto i miei passi per le strade del peccato».

E la sua Anima gli rispose «Non hai dimenticato che quando mi hai mandato per il mondo non mi hai dato un cuore. Dai, andiamo in un’altra città e stiamo allegri, poiché abbiamo nove borse d’oro».

Ma il giovane Pescatore prese le nove borse d’oro, le gettò a terra e le calpestò.

«No» gridò, «non voglio avere niente a che fare con te, e non viaggerò con te da nessuna parte, ma come ti ho mandato via prima così ti manderò via adesso, perché non mi hai fatto alcun bene». E girò le spalle alla luna, e con il coltellino dal manico in pelle di vipera verde cercò di tagliarsi via dai piedi quell’ombra del corpo che è il corpo dell’Anima.

Ma la sua Anima non si staccò da lui, né ascoltò il suo comando, ma gli disse: «L’incantesimo che ti ha insegnato la Strega non ti è più d’aiuto, perché io non posso lasciarti e tu non puoi mandarmi via. Un uomo può allontanare la sua Anima solo una volta nella vita, ma colui che riceve indietro la sua Anima deve tenerla con sé per sempre, e questa è la sua punizione e la sua ricompensa».

E il giovane Pescatore impallidì e serrò le mani e gridò: «Quella era una Strega bugiarda, perché non me l’aveva detto».

«No», rispose l’Anima, «è stata leale con Colui che venera, e per sempre sarà la sua serva».

E quando il giovane Pescatore capì che non poteva più liberarsi dalla sua Anima, e che era un’Anima malvagia che sarebbe rimasta in lui per sempre, cadde a terra piangendo amaramente.

E quando fu giorno il giovane Pescatore si alzò e disse alla sua Anima «Mi legherò le mani per non fare ciò che mi ordini, e chiuderò le mie labbra per non pronunciare le tue parole, e tornerò nel luogo dove abita colei che amo. Tornerò al mare e alla piccola baia dove lei è solita cantare, e la chiamerò e le racconterò il male che ho fatto e il male che tu mi hai fatto».

E la sua Anima lo tentò e gli disse «Chi è il tuo amore, che tu debba tornare a lei? Al mondo ce ne sono tante più belle di lei. Ci sono le danzatrici di Samaris che danzano imitando ogni tipo di uccello e di animale. Hanno i piedi dipinti con l’henné e alle mani hanno campanellini di rame. Ridono quanto cantano, e la loro risata è chiara come l’acqua. Vieni con me e io te le mostrerò. Perché che problemi hai con ciò che riguarda il peccato? Non è fatto per chi mangia ciò che è piacevole mangiare? C’è forse veleno in ciò che è dolce da bere? Non farti problemi e vieni con me in un’altra città. C’è una piccola città qui vicino in cui c’è un giardino di magnolie. E in questo incantevole giardino vivono pavoni bianchi e pavoni con il petto azzurro. Le loro code, quando le aprono al sole, sono come dischi d’avorio e dischi d’oro. E colei che li nutre danza per far loro piacere, e talvolta danza sulle mani e talvolta con i piedi. Ha gli occhi colorati con lo stibio e le sue narici hanno la forma delle ali di una rondine. Da un gancio in una delle sue narici pende un fiore intagliato in una perla. Ride quando danza, e gli anelli d’argento che porta alle caviglie tintinnano come campane d’argento. Perciò non farti più problemi, e vieni con me in questa città.

Ma il giovane Pescatore non rispose alla sua Anima; chiuse le labbra con il sigillo del silenzio, e con una stretta fune si legò le mani, e viaggiò indietro verso il luogo da cui era venuto, fino alla piccola baia dove il suo amore era solito cantare. E sempre la sua Anima lo tentò lungo il cammino, ma lui non le diede retta, né fece alcuna delle cattiverie che cercò di fargli fare, così grande era il potere dell’amore che era in lui.

E quand’ebbe raggiunto la riva del mare, sciolse la corda dalle sue mani e tolse il sigillo del silenzio dalle sue labbra, e chiamò la piccola Sirena. Ma lei non venne alla sua chiamata, benché lui la chiamasse tutto il giorno e la implorasse.

E la sua Anima lo scherniva e diceva «Certo che hai ben poche gioie dal tuo amore. Sei come uno che in tempo di morte versa acqua in un vaso rotto. Dai via ciò che hai e niente ti viene dato in cambio. Sarebbe stato meglio per te se fossi venuto con me, perché io so dove si stende la Valle del Piacere, e quali cose si facciano laggiù».

Ma il giovane Pescatore non rispose alla sua Anima, ma si costruì una casa di canne in una spaccatura della roccia, e vi dimorò per un anno. E ogni mattina chiamava la Sirena, e ogni mezzogiorno la chiamava di nuovo, e di notte proferiva il suo nome. Tuttavia mai lei risalì dal mare per incontrarlo, né lui riuscì mai a trovarla in nessun luogo del mare, benché l’avesse cercata nelle grotte e nella verde acqua, nelle pozze della marea e nei pozzi che si trovano nel fondo degli abissi.

E sempre la sua Anima lo tentava con il male, e gli bisbigliava cose terribili. Ciononostante non prevalse su di lui, tanto era grande il potere del suo amore.

E quando l’anno fu passato, l’Anima pensò tra sé e sé: «Ho tentato il mio padrone con il male, e il suo amore è più forte di me. Lo tenterò con il bene, e forse lui verrà con me».

Perciò si rivolse al giovane Pescatore e gli disse: «Ti ho parlato delle gioie mondane, e non mi hai prestato nessun ascolto. Permettimi di parlarti delle sofferenze del mondo, e forse mi ascolterai. Perché in verità il dolore è il Signore di questo mondo, e non c’è nessuno che sfugga alla sua rete. Ad alcuni mancano le vesti, ad altri manca il pane. Ci sono vedove vestite di porpora e vedove vestite di stracci. I lebbrosi vanno avanti e indietro per le paludi, e sono crudeli gli uni con gli altri. I mendicanti vanno su e giù per le strade, e le loro borse sono vuote. La Fame cammina per le strade delle città, e la Peste siede alle loro porte. Vieni, andiamo a sistemare queste cose e a fare in modo che non ci siano più. Per quale motivo dovresti stare qui a chiamare il tuo amore, dal momento che lei non viene al tuo richiamo? E che cos’è l’amore, che tu debba dargli tanta importanza?

Ma il giovane Pescatore non rispose, tanto era grande il potere del suo amore. E ogni mattina chiamava la Sirena, e ogni mezzogiorno la chiamava di nuovo, e di notte proferiva il suo nome. Tuttavia mai lei risalì dal mare per incontrarlo, né lui riuscì mai a trovarla in nessun luogo del mare, benché l’avesse cercata nei fiumi del mare e nelle valli che si trovano sotto le onde, nel mare che la notte rende purpureo, e nel mare che l’alba colora di grigio.

E dopo che passò il secondo anno, di notte, mentre se ne stava da solo nella casa di canne, l’Anima disse al giovane Pescatore: «Ecco! Ora ti ho tentato con il male e ti ho tentato con il bene, e il tuo amore è più forte di me. Perciò non ti tenterò più, ma ti prego di permettermi di entrare nel tuo cuore, affinché io possa essere una sola cosa con te come prima».

«Puoi entrare di certo», disse il giovane Pescatore, «perché nei giorni in cui hai girato per il mondo senza un cuore devi aver sofferto assai».

«Ahimè!» gridò la sua Anima, «non riesco a trovare nessun accesso, tanto è circondato d’amore questo tuo cuore.»

«Però vorrei poterti aiutare», disse il giovane Pescatore.

E mentre parlava, dal mare provenne un grande grido di dolore, il grido che gli uomini sentono quando muore qualcuno delle Genti del Mare. E il giovane Pescatore si levò e lasciò la sua casa di canne, e corse giù alla spiaggia. E le onde nere venivano rapide a riva, portando con loro un fardello che era più bianco dell’argento. Era bianco come la cresta dell’onda, e come un fiore galleggiava sulle onde. E la cresta lo portò via dalle onde, e la spuma lo portò via dalla cresta, e la riva lo ricevette, e disteso ai suoi piedi il giovane Pescatore vide il corpo della piccola Sirena. Morto ai suoi piedi esso giaceva.

Piangendo come trafitto dal dolore, si gettò a terra accanto ad esso, e baciò il freddo rosso della bocca, e accarezzò l’umida ambra dei capelli. Si gettò accanto ad esso sulla sabbia, piangendo come scosso dalla gioia, e tra le sue braccia brune se la strinse al petto. Le sue labbra erano fredde, ma lui le baciò. Salato era il miele dei capelli, ma lui lo assaporò con gioia amara. Baciò le sue palpebre chiuse, e gli schizzi selvaggi che coprivano quelle coppe erano meno salati delle sue lacrime.

E a quella creatura morta lui fece una confessione. Dentro le conchiglie delle sue orecchie lui versò l’aspro vino del suo racconto. Si mise quelle piccole mani intorno al collo, e con le sue dita toccò l’esile giunco della gola. Amara, amara era la sua gioia, e pieno di strana felicità era il suo dolore.

Il mare nero si avvicinava, e la bianca spuma gemeva come un lebbroso. Con bianchi artigli di spuma il mare si aggrappava alla riva. Dal palazzo del Re del Mare venne nuovamente un grido di dolore, e lontano sul mare i grandi Tritoni soffiarono rauchi nei loro corni.

«Fuggi via» disse la sua Anima, «perché il mare si avvicina sempre più e se indugi ti ucciderà». Fuggi via, perché io ho paura vedendo che il tuo cuore mi è inaccessibile a causa della grandezza del tuo amore. Fuggi in un luogo sicuro. Non vorrai certo mandarmi in un altro mondo senza un cuore?»

Ma il giovane Pescatore non ascoltò la sua Anima, e invece chiamò la piccola Sirena e disse: «L’amore è meglio della saggezza, e più prezioso delle ricchezze, e più bello dei piedi delle figlie degli uomini. I fuochi non possono distruggerlo, né le acque spegnerlo. Ti ho chiamato all’alba, e tu non hai risposto alla mia chiamata. La luna ha udito il tuo nome, ma tu non mi hai dato ascolto. Perché crudelmente ti avevo lasciata, e per mia disgrazia mi ero allontanato. Tuttavia il tuo amore è sempre stato dentro di me, ed era sempre così forte che niente ha potuto sottometterlo, benché io abbia visto il male e abbia visto il bene. E ora che sei morta, di certo morirò anch’io con te».

E la sua Anima lo supplicò di andar via, ma lui non volle, tanto era grande il suo amore. E il mare si avvicinò ancora, e cercò di coprirlo con le sue onde, e quando lui capì che la fine era vicina, baciò con folli baci le fredde labbra della Sirena, e il cuore si spezzò dentro di lui. E appena il suo cuore si ruppe per la pienezza del suo amore, l’Anima trovò un’apertura e vi entrò, e fu tutt’uno con lui come prima. E il mare coprì il giovane Pescatore con le sue onde.

****

La mattina il parroco andò a benedire il mare, perché era stato agitato. E con lui andarono i monaci e i musicisti, e i portatori di ceri, e gli agitatori d’incenso, e un grande assembramento.

E quando il Parroco raggiunse la riva vide il giovane Pescatore che giaceva annegato tra la spuma, e stretto tra le sue braccia teneva il corpo della piccola Sirena. Ed egli si ritrasse accigliato, e avendo fatto il segno della croce, gridò forte e disse: «Non benedirò il mare né niente che vi abiti. Che siano maledette le Genti del Mare e che siano maledetti tutti coloro che hanno commercio con essi. E per quanto riguarda colui che per amore ha dimenticato Dio e giace qui con la sua innamorata uccisa dal giudizio divino, raccogliete il suo corpo e il corpo della sua innamorata, e seppelliteli nell’angolo del campo dei Follatori, e non mettete nessun segno su di loro, né segnalazioni di nessun tipo, cosicché nessuno possa conoscere il luogo della loro sepoltura. Perché maledetti erano in vita e maledetti saranno anche nella morte».

E la gente fece come lui aveva ordinato, e nell’angolo del campo dei Follatori, dove non cresceva alcuna erba dolce, scavarono una fossa profonda e vi deposero le creature morte.

E quando il terzo anno trascorse, in un giorno che era giorno santo, il Parroco si recò alla cappella per mostrare alla gente le ferite del Signore, e parlare loro dell’ira di Dio.

E quand’ebbe indossato le sue vesti, e fu entrato, chinatosi di fronte all’altare, vide che l’altare era coperto da strani fiori che prima non si erano mai visti. Erano strani fiori a guardarsi, e di curiosa bellezza, e la loro bellezza lo turbò, e il loro odore era dolce alle sue narici. E si sentì felice, e non capiva perché si sentiva così.

fiore azzurro bellissimo, incantevole

E dopo che ebbe aperto il tabernacolo e incensato il reliquiario che conteneva, e mostrato la bella ostia alla gente, e averla di nuovo nascosta dietro il velo dei veli, cominciò a parlare alle persone, desiderando parlare loro dell’ira di Dio. Ma la bellezza dei fiori bianchi lo turbò e il loro odore era dolce alle sue narici, e alla sue labbra venne un’altra parola, e non parlò dell’ira di Dio ma di quel Dio che si chiama Amore. E perché parlasse così, lui non lo sapeva.

E quand’ebbe finito di parlare le persone piangevano, e il Parroco tornò in sacrestia e i suoi occhi erano pieni di lacrime. E i diaconi entrarono e cominciarono a togliergli la veste, e gli presero il camice e il cinto, il manipolo e la stola. E lui stava fermo, come trasognato.

E dopo che lo ebbero svestito, lui li guardò e disse: «Che fiori sono quelli che stanno sopra l’altare, e da dove vengono?»

E loro gli risposero: «Che fiori siano non lo sappiamo, ma vengono dall’angolo del campo dei Follatori». E il Parroco tremò, e tornò a casa sua e pregò.

E al mattino, quando albeggiava ancora, andò fuori con i monaci e i musicisti, e i portatori di ceri, e gli agitatori d’incenso, e un grande assembramento, e venne alla riva del mare, e benedì il mare e tutte le cose selvagge che lo abitano. Benedisse anche i Fauni e le piccole creature che danzano nel bosco, e gli esseri dagli occhi accesi che scrutano tra le foglie. Benedì tutte le cose del mondo di Dio, e tutta le gente era piena di gioia e di meraviglia. Però nell’angolo del campo dei Follatori non crebbero mai più fiori di nessun tipo, ma il campo rimase sterile come prima. Né le Genti del Mare vennero più alla baia come erano solite fare, perché se ne andarono da un’altra parte del mare.

{Oscar Wilde — Il pescatore e la sua anima — racconto tratto dalla raccolta “La casa dei melograni”, 1891}

{Traduzione mia, a partire dal testo originale qui: The Fisherman and his Soul

Immagini: Aristide Sartorio, Geraldlangphotography

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